Una fornace, una stufa, un caminetto. Ecco cosa sembra l’amplificatore valvolare BAT VK75SE. Tutti quei tubi si fanno sentire; un paio d’ore dopo l’accensione dell’amplificatore, la mia sala d’ascolto è probabilmente due o tre gradi più calda del resto della casa. In questa stagione primaverile, a riscaldamento spento e a temperatura esterna non ancora estiva, la cosa è piacevole; quest’estate temo avrò bisogno di un altro amplificatore, termicamente più efficiente, per proseguire ascolti e prove.
Storia e tecnica
BAT sta per Balanced Audio Technology; la topologia bilanciata e differenziale è, quindi, una ragione di vita per il marchio. Nata nella prima metà degli anni ’90 e fondata da due ex dipendenti Hewlett Packard (una delle grandi scuole dell’elettronica americana, sarebbe divertente contare quanti dei tecnici e dei progettisti delle principali aziende hi-fi americane sono do scuola HP: credo che il numero sia eccezionalmente alto), Victor Khomenko e Steve Bednarski, l’azienda colpì quasi subito l’immaginario degli audiofili con un preamplificatore, venduto direttamente per corrispondenza nei primissimi tempi, e un finale di potenza, ambedue interamente a valvole (escludendo l’alimentazione) e interamente bilanciati, tanto da non prevedere ingressi su RCA, solo su XLR. L’intera produzione BAT, attualmente decisamente articolata – comprende lettori CD, amplificatori integrati, preamplificatori stereo a valvole e a stato solido, finali stereo e multicanale a stato solido e mono e stereo a valvole – mantiene l’architettura differenziale bilanciata come base di progetto. Altri due caposaldi dei progetti di Khomenko (VK nei nomi degli apparecchi sono ovviamente le sue iniziali) sono l’assenza di controreazione ingresso-uscita e l’assenza di stadi inseguitori.
La topologia differenziale e bilanciata è piuttosto controversa, negli ambienti audiofili. Essa comporta vantaggi e svantaggi. I vantaggi dal punto di vista tecnologico sono la cancellazione del rumore differenziale (il segnale viene diviso in due metà simmetriche, una positiva e una negativa; ciò che si aggiunge, che non è simmetrico nelle due metà, è, per forza di cose, rumore) e delle armoniche pari, nonché un incremento “gratuito” del guadagno di 6 dB rispetto a un circuito non differenziale. Gli svantaggi dal punto di vista tecnico riguardano, in particolare, la necessità di una stretta uguaglianza delle due metà del circuito per ottenere i vantaggi teorici del sistema, necessità che spesso viene risolta attraverso l’utilizzo di controreazione; dal punto di vista economico, i detrattori del sistema bilanciato fanno notare che un circuito doppio differenziale costa, a parità di qualità e quantità della componentistica, esattamente il doppio dello stesso circuito in configurazione single ended (cioè non bilanciata), e che, quindi, ci sono modi più intelligenti di costruire apparecchi ad alte prestazioni, soprattutto in ambito domestico, dove non c’è bisogno di una reiezione ai disturbi da primato, dato che le connessioni sono, in genere, brevi; si può, secondo i deetrattori di questa topologia, spendere il proprio denaro in modo più sensato, ad esempio investendolo in componentistica migliore.
Personalmente posso dire di aver sentito eccellenti esempi di apparecchi domestici bilanciati ed eccellenti esempi di apparecchi non bilanciati; ciò di cui sono abbastanza certo è che i vantaggi delle connessioni bilanciate esistono solo quando è possibile mantenere il segnale interamente differenziale, non quando gli apparecchi sommano all’ingresso per sfasare di nuovo in uscita (è anche vero che non mi è mai capitato di avere a disposizione apparecchi di segnale che facessero ciò attraverso trasformatori, cosa che potrebbe avere vantaggi rispetto ad una sfasatura ottenuta con circuiti integrati).
Venendo al nostro VK75SE, dicevamo che l’apparecchio accetta solo connessioni bilanciate. In realtà, attraverso un adattatore o un cavo appositamente terminato è possibile utilizzare un preamplificatore (o una sorgente con controllo di volume) che preveda solo uscite single-ended; BAT fornisce ottimi adattatori ad una cifra poco più che simbolica. Il differenziale d’ingresso, infatti, è anche un eccellente stadio sfasatore – secondo Khomenko lo è solo incidentalmente, ma è di qualità tale che il progettista non ritiene che ci si faccia un’idea errata del suo amplificatore pilotandolo con un apparecchio non bilanciato; anzi, consiglia di lasciar fare da bilanciatore al finale se il resto dell’impianto utilizza connessioni RCA.
Circuitalmente il VK75SE è l’ultima evoluzione del VK60, il primo amplificatore finale presentato dalla BAT. E’ un apparecchio che utilizza solo triodi sul percorso del segnale. Il differenziale d’ingresso usa una 6H30 per canale; si tratta di un triodo russo che si vede sempre più spesso negli apparecchi hi-end (è utilizzato nell’ultima versione del pre Reference Audio Research, per fare un esempio), che BAT ha utilizzato per prima in Occidente. La 6H30 viene qui utilizzata con una 6V6 Electro Harmonix in funzione di carico attivo (questo stadio d’ingresso è la principale differenza visibile fra la versione SE e quella standard dell’amplificatore, disponibile per 4500 euro in meno; in realtà cambiano altre parti interne, quali la qualità di alcuni componenti, il dimensionamento dei condensatori di alimentazione, la presenza di una serie di condensatori in carta e olio, l’estetica dell’amplificatore). Lo stadio successivo, quello pilota, è composto da un terzetto di 6SN7 per canale (probabilmente una e mezza per ramo) parallelizzate e fatte lavorare ad una tensione decisamente alta, vicina ai limiti teorici per questo tubo. Vengono utilizzati tubi Sovtek; BAT scoraggia l’uso di tubi d’epoca in questa posizione, dato che è possibile che valvole antiche, di cui non si conoscono le condizioni e la storia, possano suicidarsi in modo spettacolare. Non sono riportati casi di danni agli amplificatori (alle valvole sì), ma non si sa mai, né si può chiedere a BAT o al distributore di coprire eventuali danni causati in garanzia; da parte mia, pur avendo a disposizione delle Philips Miniwatt, ho preferito lasciar perdere. Le valvole di potenza sono due 6C33C-B per canale; viene utilizzato un circuito servocontrollato per il bias, tanto che non è necessario che le valvole (robuste, ma piuttosto variabili come parametri fra diversi esemplari) siano accoppiate o selezionate; l’unico problema sarà un livello maggiore di distorsione. Questo sistema di servocontrollo interviene sempre all’accensione del finale, che per il primo minuto resta in standby, dopodiché si accendono i quattro led di fronte a ciascuna delle valvole finali e l’amplificatore è pronto a suonare) L’amplificatore è, in pratica, composto da quattro amplificatori single-ended in un unico telaio, in controfase due a due. Non vengono utilizzati cathode follower (che, secondo Khomenko, mangiano dinamica) né viene utilizzata controreazione globale. Il trasformatore di alimentazione ha secondari separati per i due canali; viene utilizzato il minimo indispensabile di regolazione sulle linee dell’alimentazione (neanche i regolatori, secondo Khomenko, fanno bene alla dinamica) e i trasformatori d’uscita sono dei Plitron toroidali a larga banda, che prevedono tre secondari separati per carichi da 8 ohm o superiori, da 4 ohm e inferiori a 4 ohm. L’amplificatore ha un’impedenza d’uscita non trascurabile (circa 1.5 ohm dichiarati) e, come già detto, scalda come un forno aperto. Le valvole hanno una vita sul campo di 4-5 anni di utilizzo normale; l’intero set di ricambio (14 pezzi…) dovrebbe essere acquistabile dall’importatore – fortemente raccomandato, per quanto detto sopra – per una cifra intorno ai 600 Euro.
Esteticamente, beh, è grande e funzionale – non è bello, non lo trovo particolarmente accattivante. E’ sicuramente affascinante, quando è acceso, con le sue 14 valvole che illuminano e riscaldano la stanza, e dà un’impressione di robustezza assoluta, sia dal punto di vista meccanico, sia da quello della finitura, comunque di ottimo livello.
Suono
Ho utilizzato l’amplificatore con tre preamplificatori diversi (Tom Evans Vibe, Sonic Frontiers SFL2, Audio Synthesis ProPassion), con due sorgenti digitali (Sony SCD-777ES e North Star Model 192 DAC), con la mia sorgente analogica (Scheu/VPI/Scheu-Benz/DACT), due coppie di diffusori (Wilson WITT e B&W Silver Signature) e coi cavi provati in questo numero (Monster, White Gold, Shunyata, WireWorld e Boomerang); come cavi di potenza ho utilizzato i Van den Hul Revelation Hybrid, i Boomerang e i DNM, come cavi di alimentazione Boomerang, Transparent, Audio Agile sul finale, ART, ancora Boomerang, Eupen, Neutral Cable su sorgenti e pre.
Una volta tanto, la prima impressione è stata quella giusta. Ho acceso il finale, atteso pochi minuti (poco più del tempo necessario affinché l’amplificatore lasciasse passare il segnale) e, ansiosamente, piazzato nel cassetto del Sony l’ultimo disco che avevo sentito col GamuT, Spem in Alium, etichetta Coro, una raccolta di composizioni di epoca elisabettiana eseguite da The Sixteen, fra cui il famoso mottetto “a quaranta parti” di Thomas Tallis. E’ un disco che, con il GamuT, mi era sembrato insoddisfacente, privo di vita, di dinamica, armonicamente povero, ma che mi aveva lasciato uno strano retrogusto, come se non fossi ancora riuscito a sentire tutto quel che c’era nel suo strato ad alta risoluzione. Non che mi aspettassi un’epifania, volevo solo verificare di aver connesso tutto correttamente e che tutto funzionasse (il primo disco che ascolto con un nuovo apparecchio è quasi sempre il primo che mi trovo fra le mani nella confusione che contraddistingue la mia sala d’ascolto). Però l’epifania è arrivata. Il sistema, in un colpo, era diventato capace di estrarre la consistenza armonica e la materializzazione degli esecutori nascoste nei cerchi di pit del dischetto. L’esecuzione del mottetto era diventata all’improvviso piena di interesse, di pathos e di capacità di coinvolgimento; quel senso di disagio e di inquietudine che mi aveva provocato fino a quel momento lasciava spazio a un quasi totale piacere d’ascolto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi trovavo davanti a qualcosa che colpiva prima i miei sensi e poi la mia capacità di analisi, qualcosa il cui risultato complessivo sembrava superare la somma delle parti del suono razionalmente scindibili e descrivibili con la terminologia, ormai standardizzata, dell’audiofilia.
Superato il primo choc, era dunque tempo di capire cos’era che rendeva quest’amplificatore diverso. Un confronto a volume parificato con il GamuT D200 Mk3 non era sufficiente, una volta tanto, quindi, non vi parlerò dell’oggetto in prova paragonandolo con il mio riferimento, dato che gli esiti di questo sono stati insostanziali. Potrei solo dirvi che, come estensione (anche con le Wilson, che scendono sotto i 30 Hz), il BAT non ha nulla da invidiare al GamuT, se non forse l’ultima, piccola dose di controllo – controllo che, però, viene molto aiutato dalla scelta del cavo di potenza, ottimo l’abbinamento col Van den Hul, un po’ meno quello col Boomerang, come v dico altrove in questo numero, e quello col DNM – sull’estremo basso e sul mediobasso, che la scena è, in ambedue i casi, quanto di meglio sia riuscito ad ottenere nella mia stanza, che il medio del BAT sembra essere un po’ più avanzato, che l’acuto è estremamente dolce e al contempo realistico in ambedue i casi e che il BAT sembra avere un lieve vantaggio nella trasparenza, nella microdinamica e nel microdettaglio, mentre, forse, nella velocità assoluta e nel macrocontrasto un lievissimo vantaggio va al GamuT. A livello di neutralità, è possibile che il GamuT conservi un sottilissimo vantaggio sul BAT, ma è certo che l’amplificatore americano, per essere un apparecchio a valvole e per avere un’impedenza di uscita non trascurabile, è sorprendentemente lineare; diciamo che, se il GamuT rimane un campione, il BAT sale comunque sul podio.
E allora, dato che il “death match” si chiude in un sostanziale pareggio, o comunque con un margine per il BAT non tale da giustificare, almeno visto così, l’esborso più che doppio rispetto a quello del GamuT per entrarne in possesso, perché, alla fine (e neanche tanto alla fine), ho deciso di mettere mano al portafoglio?
Complessità armonica
Il timbro di uno strumento musicale è composto da una fondamentale più una serie di armoniche, che sono specifiche ad esso e lo rendono diverso non solo da uno strumento di un’altra famiglia che abbia la stessa estensione, o la cui estensione sia sovrapponibile con la sua almeno in parte (diciamo un sassofono, un oboe e una viola), ma anche da altri strumenti dello stesso tipo, costruiti in modi diversi, in epoche diverse o da fabbricanti diversi. Le armoniche sono ciò che rende diverso un oboe da una viola, un Guarneri da uno Stradivari, un Amati da uno Yamaha o da un clone cinese. In altre parole, quello che definiamo normalmente “colore strumentale” (da non confondere con le colorazioni nel dominio della risposta in frequenza: pure queste possono avere il loro influsso sul colore timbrico degli strumenti, ma ce l’hanno in maniera molto più ovvia e uniforme, più in termini di spostamento del bilanciamento del loro suono fondamentale che in termini di separazione o omogeneizzazione delle distanze timbriche fra essi) è determinato, in larga misura, dalla capacità della catena di riprodurre le armoniche di basso livello.
E qui c’è un problema nella maniera in cui molti audiofili, che hanno un’esperienza molto relativa -o molto parziale – del suono dal vivo, definiscono la neutralità. Il rischio che essi corrono è quello di concepire la neutralità come pulizia, arrivando a preferire un tipo di riproduzione più arioso che realistico, che va, secondo la mia esperienza, a disseccare lo sviluppo armonico degli strumenti, rendendo (estremizzo, chiaramente) gli archi vieppiù caratterizzati dalle loro corde che dalle loro casse armoniche (la tendenza a riprodurre violini dal suono “cordoso/acciaioso”, esacerbata dal digitale a bassa risoluzione, è una delle mie principali cause di insoddisfazione rispetto al suono di buona parte dell’alta fedeltà da audiofili degli ultimi anni) e rendendo gli strumenti a fiato, i legni in particolare, troppo vicini, dal punto di vista timbrico, agli archi.
(Esiste anche, esacerbata dalla tendenza degli ultimi anni verso l’utilizzo di amplificatori single ended, la tendenza opposta, cioè quella al Technicolor: archi e legni che tendono al suono degli ottoni a causa di un eccesso di armoniche).
Qui c’è uno dei decisivi vantaggi del BAT rispetto al GamuT (e rispetto a qualsiasi altro amplificatore abbia avuto in casa): la capacità di rendere evidente la distanza timbrica fra gli strumenti e di rispettarne il naturale decadimento. Non è una di quelle differenze che si colgono con switch rapidi fra apparecchi, richiede un livello di attenzione – e una conoscenza del suono della musica dal vivo – che sono difficili da “tirar fuori” in una serie di ascolti testa a testa: rchiede un tempo di valutazione per forza di cose più lungo, per essere determinata.
Fluidità
Ne ho già parlato più volte, credo, sulle pagine della rivista e sul forum. Il rischio, come già detto a proposito del Musical Fidelity Tri-Vista SACD, è che un apparecchio o un sistema più fluido, più continuo, sembri a tutta prima più dinamicamente compresso rispetto a uno più “saltellante” fino allo strappo. Nel caso del BAT, pur essndo l’amplificatore palesemente più fluido e più “cantante” rispetto a quanto finora ascoltato nella mia stanza, ciò non sembra succedere. E’ come se la sua capacità di riprodurre e seguire le nuance armoniche e microdinamiche lo rendesse immune da questo. Succedono un sacco di cose sul palcoscenico virtuale,per cui si rileva un effetto quasi paradossale: la maggiore fluidità rispetto ad altre amplificazioni non è leggibile direttamente e in prima istanza (e si rischia anche, rispetto ad amplificatori più semplificanti il messaggio, di non percepirlo immediatamente come estremamente dettagliato e trasparente, cosa che, indubitabilmente, è), ma ha bisogno di tempo per essere capita.
Macrodinamica e prontezza
Ho già detto sopra che un eccellente amplificatore a stato solido come il GamuT rimane leggermente avvantaggiato per quanto riguarda la macrodinamica. Di quanto? Non poi di così tanto. Non abbastanza da essere sicuri, alla fine della fiera, che quel vantaggio non sia dovuto ad un lievissimo “strappare” da parte dell’amplificatore a stato solido. Per quanto riguarda la prontezza, la accomuno a ciò che gli anglosassoni definiscono “surprise factor”, cioè la capacità, presente nella musica dal vivo sempre, nella riproduzione solo in determinate condizioni )e quasi mai con il digitale a bassa risoluzione) da parte dell’esecuzione di far girare la testa, di iniettare una dose di adrenalina all’ascoltatore attraverso l’apparizione di un dettaglio espressivo, del suono di uno strumento che, in quel momento, resta inatteso. E’ un altro di quei fattori che, in un confronto rapido, nell’ascolto di due ore da prova in negozio, rischiano di non essere percepiti, anche perché più o meno tutti si tende ad ascoltare, per i confronti testa a testa, quella decina – se va bene – di dischi conosciuti a menadito, di cui ci si è fatti un’idea (più o meno platonica), di cui si pensa di conoscere ogni piega, per cui si rischia anche di annoiarsi…
Non so se la presenza, nel BAT, di capacità di sorprendermi in quantità insospettabile sia dovuta al fatto di essere un amplificatore a valvole (e quindi, secondo certe teorie tecniche, più veloce nel trattamento del flusso degli elettroni e meno soggetto a impedimenti al passaggio del segnale a bassissimi livelli, più continuo e meno “discreto”); sta di fatto che, con altri valvolari, non mi è parso che questa caratteristica fosse altrettanto presente, forse oscurata alle mie orecchie da altri problemi, quali colorazioni e distorsioni eufoniche, o problemi di pilotaggio dei diffusori.
E il SACD?
In alcuni circoli dell’alta fedeltà si sta cominciando a credere alla storia che, per ottenere i migliori risultati dai formati ad alta definizione e ad alta dinamica (SACD e, quando fatto bene, DVD-Audio), siano necessari impianti costruiti in una determinata maniera, con diffusori particolari ed elettroniche a stato solido. Per certi versi, finora lo pensavo anch’io; mi era, infatti, sembrato che l’estensione di gamma (più che la dinamica) degli amplificatori a stato solido fosse un prerequisito per ottenere i migliori risultati dalla risposta in frequenza dei nuovi formati. Non più, dopo l’esperienza BAT. Sarà forse l’ampiezza di risposta del VK75SE (oltre i 70 kHz dichiarati), sarà la sua capacità dinamica, saranno le sue caratteristiche di distorsione, ma mi pare che, grazie a quanto scrivevo sopra sulla complessità armonica, venga fuori, meglio che con le amplificazioni a stato solido, la superiorità dei nuovi formati (e del vinile) nella riproduzione di una timbrica più realistica, di strumenti più veri, di qualcosa che si avvicina di più all’esperienza dal vivo. Quindi nessuna limitazione nella riproduzione dei nuovi formati e nella riproposizione della loro superiorità al digitale a bassa risoluzione, anzi, la scoperta di una nuova dimensione, forse meno evidente, ma più appagante, di quella superiorità. Fortunatamente le conclusioni provvisorie possono essere riviste, fortunatamente si cresce.
Ancora un paio di notazioni
Solo due o tre notazioni tecniche: l’amplificatore è estremamente silenzioso (solo il minimo ronzio si percepisce, a frequenza piuttosto alta, avvicinando l’orecchio ai tweeter delle mie WITT, 89 dB di efficienza). E sì, funziona ugualmente bene con connessioni sbilanciate o bilanciate, tanto che non saprei cosa scegliere. Con il pre passivo, per i miei livelli di ascolto e per le mie abitudini, sembra esserci un po’ meno volume di quanto necessario, una riduzione della dinamica (ma il cablaggio non è ottimizzato per l’uso con un passivo), ma anche una ricostruzione della scena da assoluto primato in tutte le dimensioni. Questo fatto, così come le differenze rivelate con cavi, sorgenti e preamplificazioni attive (ancora valido, sebbene assai più rumoroso del Tom Evans, il vecchio Sonic Frontiers, soprattutto per dinamica e assenza di grana), ha contribuito alla mia scelta finale di adottare il BAT come strumento di “lavoro” per le recensioni, oltre che di piacere per l’ascolto della musica. Ah, e la potenza, di 75 watt per canale al 3% di distorsione, è del tutto sufficiente anche per l’ascolto di Mahler, di Wagner e dei Massive Attack, nel mio ambiente di 70 mc circa e con i miei diffusori. Anzi, l’amplificatore sembra quasi chiedere qualcosa di più impegnativo (lo vedo, lo vedo che mi guarda e mi dice: “Tutto qua?”).
Un’ultima cosa: amplificatori come questo, a causa della non trascurabile impedenza d’uscita, possono dare risultati d’ascolto abbastanza diversi da quelli che ho ottenuto io, con diffusori dalla curva di impedenza non particolarmente tormentata. Se i vostri diffusori presentano variazioni di impedenza selvagge, potreste non riscontrare affatto la stessa neutralità; mi verrebbe da dire che potreste prendere in considerazione l’idea di cambiare diffusori…
Bilanciato…
Ecco, infine, una nuova lettura di quel “Balanced” nel nome. Victor Khomenko ha raggiunto, per quanto riguarda la mia esperienza d’ascolto, un bilanciamento non so se ideale, sicuramente mai sentito finora da parte mia, delle caratteristiche tipiche della tecnologia a stato solido e di quella a valvole, riuscendo a minimizzare i difetti di ciascuna e trovando caratteristiche nuove sulla strada. Questo, signore e signori, è il migliore amplificatore che mi sia capitato di sentire: sempre al comando della situazione, mai fuori controllo, ma sempre elegante, mai militaresco nel suo controllo. E quindi diventa il mio nuovo riferimento, dato che mi permette di godere della musica come mai prima d’ora. Forse la cosiddetta “musicalità” (termine col quale, come già detto, ho più di qualche problema “filosofico”, quand’è attribuito ad apparecchi di riproduzione e non ad esecutori o a strumenti musicali) sta proprio qui, nella capacità di raggiungere un bilanciamento fra le caratteristiche sonore che permette di avere una finestra più grande, un vetro più pulito per guardare l’evento musicale.
Quanto al rapporto qualità prezzo, che volete che vi dica? 13500 Euro (passibili di sconti, è vero) rimangono una cifra considerevole, praticamente irraggiungibile per la maggioranza fra gli umani, anche prendendo in considerazione solo quelli del ricco occidente. Visto a confronto con altri oggetti, tenendo a mente la serietà dell’azienda costruttrice (che, all’inizio della sua storia, non ha esitato a ritirare una parte della produzione per sostituirne a proprio carico il trasformatore di alimentazione, che aveva sviluppato un problema di rumorosità) e quella dimostrata dall’ancor giovane distributore italiano, beh, ci si può pensare…